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Da Trento primo stop al contributo unificato di giustiziaby Studio Legale Padula

Innovativa ordinanza del Tribunale di giustizia amministrativa di Trento in tema di contributo unificato nel processo amministrativo. Con provvedimento del 25 giugno 2014 n. 58, uno studio legale ha ottenuto la sospensione del pagamento vedendosi riconosciuto il rischio di un pregiudizio grave. La storia recente del contributo da versare a corredo di ogni azione giudiziaria, vede – dall’altroieri – un’ultimo balzo all’insù per i giudizi civili varato con l’articolo 53 del dl 90/2014 (si veda Il Sole 24 Ore del 25 giugno) .
Da tempo, peraltro, nella giustizia amministrativa il contributo ha destato forti perplessità, sia per l’entità, sia per il suo moltiplicarsi in caso di motivi aggiunti. Proprio il Tribunale di Giustizia amministrativa di Trento, con ordinanza n. 23 del 29 gennaio 2014 si è rivolto alla Corte di giustizia Ue ritenendo che il contributo imposto a carico di chi impugni appalti sia, per l’elevato suo importo, in contrasto con i principi di agevole accesso posti dalla Direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989 n. 665. Coerente a tale dubbio, giunge ora un singolo provvedimento cautelare che sospende una richiesta di pagamento indirizzata a tre avvocati da parte della segreteria del Tribunale di giustizia amministrativa di Trento.

Fonte: http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/guidaAlDiritto/dirittoAmministrativo/2014-06-27/trento-primo-stop-contributo-110142.php

Nel processo telematico le regole tecniche hanno forza sostanziale: no all’atto in un formato non ammessoby Studio Legale Padula

di Giovanni Negri

Gli standard fissati dal ministero della Giustizia per il processo telematico non possono essere aggirati. Non ogni formato online può essere considerato rispondere ai requisiti minimi necessari. Anche quando, per caso, sia stato di fatto acquisito al sistema del processo civile digitale. A queste conclusioni approda un’interessante pronuncia del tribunale di Roma del 9 giugno con la quale è stato dichiarato inammissibile un ricorso per decreto ingiuntivo. A fermare il ricorso è stato il formato dell’atto: questo infatti è stato depositato sotto forma di «scansione di un’immagine e non consente operazioni di selezione e copia di parti». In sostanza si tratta di una copia sia pure firmata digitalmente.

Per arrivare al giudizio di inamissibilità il tribunale ricostruisce il quadro normativo di riferimento partendo dal decreto del ministero della Giustizia del 21 febbraio 2011 con il quale sono state introdotte le regole tecniche del processo telematico, cui sono tenuti ad adeguarsi tutti gli operatori del processo nella redazione degli atti. Il decreto affidava al responsabile per i servizi informativi automatizzati del ministero della Giustizia il compito di fissare le specifiche tecniche. A questo compito rispondeva il successivo provvedimento del 18 luglio 2011, con il quale, all’articolo 12, tra l’altro, si precisava come l’atto del processo in forma di documento informatico doveva rispettare 3 requisiti:
• il formato pdf;
• l’assenza di elementi attivi;
• il fatto di essere ottenuto dalla trasformazione di un documento testuale, senza restrizioni per le operazioni di selezione e copia di parti, veniva posto divieto alla scansione di immagini.

Verificata allora la difformità tra la scansione di altro documento cartaceo e la necessità di trasformazione in formato pdf di documento testuale le conseguenze giuridiche sono pesanti. Infatti, è l’articolo 121 del Codice di procedura civile a stabilire che «gli atti del processo per i quali la legge non richiede forme determinate possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo».

La norma, che i giudici sottolineano assurgere al rango di principio del diritto processuale civile, è certo nata in un contesto storico al quale era estranea la dimensione digitale degli atti e dei documenti. Tuttavia, pur nell’ambito di una generale libertà delle forme, è ammessa la possibilità di un’imposizione di forme determinate. Così, «a ben vedere, quando ciò avvenga non è consentito affidarsi al criterio del raggiungimento dello scopo per sancire la validità di un atto compiuto senza il rispetto delle forme stabilite». In questo senso non vale una lettura esclusivamente “sostanzialista” dell’articolo del Codice.

E, per quanto riguarda la forza da dare ai regolamenti del ministero che determinano le regole tecniche indispensabili per la funzionalità del processo civile telematico, queste costituiscono integrazione della normativa primaria. L’adesione alle regole tecniche costituisce poi un passaggio indispensabile per assicurarne praticabilità e rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata dei giudizi. E allora «l’unicità dello standard costituisce lo strumento senza il quale non è neppure concepibile lo svolgimento di un processo in forma telematica».

Pertanto, prosegue il provvedimento del tribunale di Roma, lo «scopo» dell’atto processuale non può essere costituito solo dalla rappresentazione delle proprie determinazioni a giudici e avvocati delle altre parti, dal momento che non si può certo pensare che un sms o una mail possano dare validamente corso a una procedura telematica. Lo scopo dell’atto digitale diventa allora «quello di inserirsi efficacemente in una sequenza intrinsecamente assoggettata alle regole tecniche che impongono l’adozione di particolari formati in luogo di altri». Non può dunque che essere derubricata a semplice casualità l’acquisizione da parte del sistema dell’atto che era stato espresso in una forma non ammessa. Anzi, l’ultima versione del sistema messa a punto per il contenzioso civile dovrebbe permettere anche lo sbarramento tecnico dei file espressi in formato anomalo.

Fonte: http://www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com/art/civile/2014-07-16/nel-processo-telematico-regole-tecniche-hanno-forza-sostanziale-no-atto-un-formato-non-ammesso-180453.php?uuid=ABm0WKbB

Divorzio breve, matrimonio pureby Studio Legale Padula

Massimo Silvano Galli, Pedagogista e Teresa Laviola, Avvocato | 17 luglio 2014

In un bell’articolo del 2009 (“Perché si sceglie di stare insieme una vita senza una vera ragione per farlo” -Repubblica, 1 settembre 2009), il filosofo Umberto Galimberti esortava, tra le altre cose, a riflettere sulla fragilità delle relazioni di coppia contemporanee, segnate dalla tendenza, sempre più diffusa, alla separazione, quasi che, per boutade paradossale, l’accesso al divorzio si configurasse quale passaggio fondamentale per giungere al (vero) traguardo della separazione.

Galimberti, la cui opera non può certo essere accusata di clericalità, invitava a riflettere su come, in un’epoca in cui tutti sembrerebbero protesi a chiedere un qualche tipo di facilitazione al divorzio, forse ci si dovrebbe interrogare su come rendere difficile il matrimonio.
Cinque anni dopo quell’articolo, ecco dunque la legge sul divorzio breve.
Il legislatore ha voluto così prestare ascolto ai tanti sofferenti che, finiti nel gorgo della separazione, erano costretti ad aspettate almeno tre anni (salvo ricorsi in giudizio) prima di veder sciogliersi, sulle carte della burocrazia, quell’amore che, nella mente e nel corpo, si era dissolto da anni.
Già nei nostri precedetti interventi su queste pagine abbiamo sollecitato a riflettere su come la gran parte delle persone che giungono in mediazione, presentino, fondamentalmente, il dilemma, tutto individuale, del non saper più come amare che spinge alla rieducazione, piuttosto che la certezza, più strettamente relazionale, del “Non ti amo più” che spinge alla separazione.
Non è differenza da poco. E non tanto perché non ci si possa separare, per quel che mi riguarda, anche al ritmo di un divorzio ogni due settimane; ma perché, come bene ci insegnano le culture tradizionali, ogni separazione, pur consapevole che sia, comporta costi sociali e individuali: sul piano relazionale, psicologico e, non ultimo, economico. Costi che non possono essere ignorati o ridotti a effetto collaterale, ma necessitano di essere disciplinati, anzitutto, sul piano di un corretto e costruttivo accesso alla conflittualità, capace di non trasformare ogni separazione in quella guerra senza confini cui, purtroppo, le cronache ci hanno abituato.
Ma, al di là di quelle separazioni che denunciano un amore effettivamente finito, ciò che ci preoccupa di questa insostenibile leggerezza del divorzio è, sulla scia di Galimberti, l’insostenibile leggerezza del matrimonio cui implicitamente rimanda; forti dell’esperienza clinica che ci vede ogni giorno confrontarci con coppie che credono di essere giunte al dramma della frutta quando, la vera tragedia, è che non hanno imparato a stare al tavolo che l’amore contemporaneo apparecchia o, peggio, non avrebbero nemmeno dovuto sedersi insieme (e, soprattutto, farci sedere figli e figlie).
Così, mentre un po’ in ogni dove del vivere contemporaneo, l’escalation verso la civiltà sembrerebbe suggerire la strada della semplificazione, della facilitazione; per quel che concerne quell’amore che volge al costituzione di una famiglia, a maggiore ragione ora con il divorzio breve, crediamo sia necessario costruire una nuova cultura dell’amore coniugale, attraverso laici dispositivi di approccio alla vita a due e, più in generale, alla vita famigliare. Il che significa, non solo lavorare sulle emergenze delle coppie in crisi, ma anche lavorare affinché queste coppie giungano in mediazione prima che la crisi sia inevitabilmente volta alla sola possibilità della separazione e, sopra a tutto, lavorare affinché le nuove coppie che intendono coniugarsi arrivino al matrimonio con grande consapevolezza.

Fonte: http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/dirittoCivile/famiglia/2014-07-17/divorzio-breve-matrimonio-pure-112148.php

A una settimana dal debutto si aggira lo spettro della “copia di cortesia”by Studio Legale Padula

A pochi giorni dal 30 giugno, data in cui – secondo le originarie previsioni – il processo civile telematico sarebbe dovuto divenire obbligatorio, regna la incertezza più assoluta non tanto sulla tempistica (sembra assodato, anche se manca ancora il crisma dell’ufficialità, che il deposito telematico degli atti endoprocessuali sarà obbligatorio solo nelle cause iniziate dal primo luglio) quanto su alcune concrete modalità di attuazione della rivoluzione informatica.

I rilievi di Anm e Csm – Con un “uno due” degno della migliore tecnica boxistica, prima la Associazione Nazionale Magistrati e poi il Consiglio Superiore della Magistratura hanno evidenziato una serie di criticità che renderebbero impraticabile l’immediato passaggio al digitale e suggerirebbero la opportunità di mantenere, sia pure transitoriamente, il fascicolo cartaceo.
Le ragioni sarebbero da ricercare nella attuale inadeguatezza delle dotazioni software ed hardware di cui dispongono gli uffici e i singoli magistrati.
Questi ultimi, in particolare, rischierebbero di mettere a repentaglio la propria professionalità e la propria salute se non potessero più avvalersi del formato cartaceo per lo studio della causa e la redazione dei provvedimenti (si veda il documento di sintesi della posizione espressa da Anm nella riunione di fine maggio del tavolo tecnico istituito presso il ministero).

Per risolvere il problema, è necessario per il Csm:
a) «garantire in via primaria la capacità di stampa degli uffici, quanto meno attraverso l’urgente fornitura di stampanti veloci, carta e toner»;
b) «la diffusione di quelle buone prassi che prevedono l’applicazione di protocolli organizzativi concordati con gli ordini professionali e diretti a garantire l’acquisizione delle copie degli atti e dei documenti prodotti telematicamente (disciplina del deposito della c.d. copia di cortesia)»;
c) la diffusione di protocolli interpretativi diretti a regolare l’applicazione dell’articolo 16 bis comma nono del decreto legge 179/2012, a mente del quale «Il giudice può ordinare il deposito di copia cartacea di singoli atti e documenti per ragioni specifiche».

Quanto al metodo, si fa fatica a comprendere come sia stato possibile giungere a ridosso della scadenza per accorgersi della presunta impraticabilità della definitiva conversione al digitale senza gli adeguati investimenti – almeno stando agli esiti della indagine effettuata dal Csm – e farebbe molto bene il Ministro, che sul pct ha puntato tantissimo, a ricercare le responsabilità e ad adottare i consequenziali provvedimenti.
Nel merito, la questione è surreale.
Intanto, sarebbe opportuno evitare di proporre soluzioni “temporanee” per la nota attitudine, almeno nel nostro paese, a divenire definitiva ogni misura emergenziale ed a tempo determinato.

La “copia di cortesia” – In secondo luogo, pur stando a cuore di tutti la professionalità e la salute dei magistrati, non può essere un rimedio la cosiddetta “copia di cortesia”, e ciò per due ordini di ragioni: scopo del processo civile telematico è quello di rendere più efficiente la giustizia anche attraverso una sua dematerializzazione, mentre l’auspicato doppio binario condanna al fallimento l’ambizioso progetto; inoltre, lo Stato non può costringere gli avvocati ad investire nella informatizzazione, pensare di ridurre l’orario di apertura delle cancellerie, immaginare di aumentare per l’ennesima volta il costo del contributo unificato (a dispetto delle dichiarazioni della attuale maggioranza che ha promesso di ridurle le tasse e non, invece, di aumentarle) ed infine chiedere al cittadino – se vuole accedere al servizio giustizia – di sostenere anche i costi della copia di cortesia.
Se il fascicolo cartaceo è essenziale per la salvaguardia della professionalità dei giudici, il ministero si faccia carico dei relativi costi; se non lo è, i magistrati (al pari di avvocati e cancellieri) dovranno gradualmente abituarsi alle nuove modalità di lavoro.
In nessun caso potranno giustificarsi soluzioni che tradiscano lo spirito della riforma e gravino ancora una volta sull’utenza.
E non sembra neppure percorribile la strada dei protocolli locali, che non possono elevare a regola generale quanto dalla legge è relegato a mera eccezione.
L’articolo 16 bis comma 9 del decreto legge 179/2012, infatti, consente al Giudice di chiedere la produzione in formato cartaceo di «singoli atti e documenti» quando ciò sia dettato da specifiche esigenze: e non potrà dar luogo a problemi interpretativi una norma che è stata pensata e voluta dal legislatore per consentire la acquisizione al fascicolo processuale solo ed esclusivamente di quei documenti il cui formato (si pensi al referto di una radiografia ovvero alle tavole di un elaborato progettuale) non consenta la digitalizzazione ovvero la agevole consultazione a video.
Ci auguriamo, quindi, che il Ministro, al quale va il plauso per aver continuato a credere in un progetto che è in perfetta sintonia con il “Piano d’azione pluriennale 2014 – 2018 in materia di giustizia elettronica europea”, approvato dal consiglio d’Europa e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 14 giugno 2014, non avalli la istituzionalizzazione di una prassi allo stato ancora embrionale, e cioè quella della copia cartacea di cortesia, tanto più se dovesse essere confermata la decisione di modulare i tempi di attuazione delle riforma: la limitazione della obbligatorietà alle sole cause iniziate dopo il 30 giugno darebbe al ministero il tempo necessario al potenziamento degli uffici auspicato dal Csm e consistente nella loro dotazione di migliori stampanti, toner e carta.

Fonti: http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/guidaAlDiritto/dirittoCivile/2014-06-23/settimana-debutto-aggira-spettro-104320.php

Professionisti non sanzionabili se non accettano carte di debitoby Studio Legale Padula

In caso di mancata accettazione dei pagamenti mediante carte di debito, nessuna sanzione potrà essere irrogata nei confronti dei professionisti. È quanto emerge dalla risposta all’interrogazione parlamentare dell’11 giugno 2014 n. 5-02936.

Norma introdotta sin dal 2012 – Con il cosiddetto “Decreto crescita bis” (Dl179/2012) era stato previsto all’articolo 15, comma 4, che, a decorrere dal 1° gennaio 2014, i soggetti che effettuano l’attività di vendita di prodotti e di prestazione di servizi, anche professionali, sarebbero stati tenuti ad accettare anche pagamenti effettuati attraverso carte di debito. Il successivo comma 5, poi, demandava, a successivi decreti interministeriali la definizione degli eventuali importi minimi, delle modalità e dei termini, anche in relazione ai soggetti interessati, di attuazione della disposizione precedenti, nonché l’eventuale estensione degli obblighi a ulteriori strumenti di pagamento elettronici anche con tecnologie mobili. In attuazione di tale comma 5 era stato emanato il decreto interministeriale 24 gennaio 2014, con il quale, tra l’altro, era stato stabilito, all’articolo 2, che l’obbligo di accettare pagamenti effettuati attraverso carte di debito si sarebbe applicato a tutti i pagamenti di importo superiore a trenta euro per l’acquisto di prodotti o la prestazione di servizi. Tuttavia, il secondo comma di tale articolo 2 disponeva che, in sede di prima applicazione e fino al 30 giugno 2014, l’obbligo di accettazione dei pagamenti mediante carte di debito si sarebbe applicato limitatamente ai pagamenti effettuati a favore dei soggetti con fatturato superiore a 200.000 euro. Con l’articolo 9, comma 15-bis, del Dl 150/2013, però, il legislatore, intervenendo direttamente sulla norma primaria di cui all’articolo 15, comma 4, del DL 179/2012, aveva poi prorogato, per tutti, al 30 giugno 2014 il termine di entrata in vigore dell’obbligo di accettazione dei pagamenti mediante carte di debito.

Il tentativo fallito del ricorso al Tar – Avverso il decreto interministeriale 24 gennaio 2014, il Consiglio nazionale degli architetti aveva presentato ricorso al Tar del Lazio, il quale, tuttavia, aveva stabilito che il provvedimento sembra rispettare i limiti contenutistici ed i criteri direttivi fissati dalla fonte legislativa e, per questo, era stata respinta l’istanza cautelare richiesta dagli architetti (Ordinanza 30 aprile 2014 n. 1932).

Circolare interpretativa del Cnf – Anche il Consiglio nazionale forense, con la circolare 10-C del 20 maggio 2014, aveva evidenziato che la disposizione in parola introduce un onere, piuttosto che un obbligo giuridico, e il suo campo di applicazione è necessariamente limitato ai casi nei quali sono i clienti a richiedere all’avvocato di potersi liberare dall’obbligazione pecuniaria a proprio carico per il tramite di carta di debito. Ipotesi che, considerate le prassi in uso nei fori, per molti professionisti potrebbe anche non verificarsi mai. In ogni caso, qualora il cliente dovesse effettivamente richiedere di effettuare il pagamento tramite carta di debito, e l’avvocato ne fosse sprovvisto, si determinerebbe semplicemente la fattispecie della mora del creditore, che, come noto, non libera il debitore dall’obbligazione. Nessuna sanzione è infatti prevista in caso di rifiuto di accettare il pagamento tramite carta di debito.

Onere ma non obbligo di accettare i pagamenti elettronici – Il Ministero, con la risposta all’interrogazione parlamentare, ha ricordato che in Italia è largamente diffuso l’utilizzo del denaro contante per effettuare pagamenti, laddove invece negli altri paesi europei risulta molto più utilizzata la cosiddetta “moneta elettronica”, ovvero l’impiego di strumenti di pagamento costituiti da carte di debito e di credito, come confermato anche dalla Banca d’Italia. Ciò posto, il Ministero ha confermato che, in effetti, come sostenuto dal Cnf, la norma in oggetto sembrerebbe introdurre un onere piuttosto che un obbligo, in quanto, come osservato nella predetta circolare degli avvocati, il legislatore non ha previsto alcuna sanzione a carico dei professionisti che non dovessero predisporre la necessaria strumentazione a garanzia dei pagamenti effettuabili con moneta elettronica.

 

Fonte: http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/guidaAlDiritto/dirittoCivile/2014-06-24/professionisti-sanzionabili-accettano-carte-115232.php

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